[ a cura di V. Brigatti, Hacca Edizioni, Matelica 2016 ]
Il cinquantesimo anniversario della morte di Elio Vittorini, trascorso per lo più nel silenzio, ha se non altro prodotto la riedizione di qualche sua opera. Oltre a Diario in pubblico (più volte ristampato nel corso degli anni, anche nella versione postuma con varie appendici), riappare adesso un libro apparso all’indomani della morte dello scrittore, quel Le due tensioni. Appunti per una ideologia della letteratura che Dante Isella aveva curato nel 1967 per Il Saggiatore componendo un gran numero di appunti dello scrittore: materiali che non fanno un’opera.
A rileggerli dopo tanti decenni nella nuova edizione curata da Virna Brigatti e con la prefazione di C. De Michelis (che riproduce tuttavia la forma proposta da Isella) appare infatti ancor più chiaro che gli appunti sono proprio tali. Una raccolta di riassunti commentati di letture, osservazioni conseguenti, retrospezioni sul proprio lavoro, abbozzi di progetti, ragionamenti che non riescono ad assumere una forma e una sintesi; preziosi, certo, per trarre qua e là alcune interessanti osservazioni, per entrare nel laboratorio dello scrittore negli ultimi anni della sua vita, ma forse troppo frettolosamente ascritte a una progettazione letteraria.
In realtà quel che appare da alcune costanti degli appunti, da leggersi assieme ad altri scritti degli stessi anni, è la presenza, in Vittorini, di alcune ossessioni che lo accompagnano quando il lavoro di “editore” si fa più intenso fino ad essere pervasivo, e quando, per contro, la sua attività di scrittore di romanzi o racconti si disperde: quasi un quindicennio, se si pensa che la sua ultima opera di notevole impegno è l’abbozzo rifiutato di Le città del mondo, opera della quale, forse non a caso, fra quelle di Le due tensioni leggiamo una pagina di disconoscimento.
È evidente anche la continuità con le riflessioni del «Menabò», soprattutto dei celebri numeri 4 e 5, quelli del dibattito su industria e letteratura, aperti da un editoriale dello scrittore sull’industria come «seconda natura». Difatti le pagine più intense e ripetute che leggiamo sono proprio quelle che riguardano la “natura”, e che ne respingono ormai la preminenza nella modernità; un’idea legata al mondo contadino in declino, ma da esso giustamente distinta; con una iterata incapacità di leggere la modernità anche in termini di rapporti di produzione e di classe, che pure Fortini e Scalia avevano a suo tempo già suggerito. E tuttavia appare il progetto ancora indeterminato, sebbene acuto, di una letteratura adeguata alla modernità; un progetto che Calvino stava da anni realizzando per proprio conto. Lontane tanto – ormai – dalla letteratura tradizionale quanto dall’avanguardia, le riflessioni di Vittorini appaiono oggi soprattutto come testimonianza di una severa “crisi” dell’impegno degli intellettuali, impegno che lo scrittore ha sempre generosamente ricercato.
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